Riceviamo e pubblichiamo

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La lettera di Franco Muolo: L’ulivo viaggiatore Novello clandestino

L’ulivo, patriarca vegetale per eccellenza, per centinaia d’anni in pianta stabile, ora viaggia. Sì, viaggia come un clandestino a bordo di grossi automezzi, lo sanno tutti ormai, e su questi occulti spostamenti si raccontano tante storie. Respingimenti “nordisti” per ora non se ne intravedono. (continua)

Chissà quando finiranno questi furtivi trasferimenti che spesso avvengono alla luce del sole di Puglia, se mai finiranno. Da qualche tempo notiamo ammassamenti di vecchi ulivi ben rasati e capitozzati ai margini di uliveti lungo le nostre strade, in attesa d’imbarco, che serviranno a raccontare altre storie in territori forse ostili. Per fare ammenda, anch'io avrei da raccontare una storia sull'infausto destino di questi autentici mostri sacri, la cui età si misura in secoli, divenuti purtroppo novelli migranti. Forse il primo espianto avvenne in agro di Monopoli nei primi anni Cinquanta, ma non servì per trapiantare al Nord un pezzo del nostro territorio, bensì a salvare dall'emigrazione una famiglia di coltivatori. Quella di mia nonna, già proprietaria del suo giardino di via Lepanto, su cui fu realizzato il noto edificio San Giuseppe, recentemente demolito per far posto a un nuovo complesso per civili abitazioni. Timorata dalle imperanti autorità civili e religiose dell'epoca, fu costretta a cedere per pochi denari l'intero appezzamento, esteso poco più di un quarto di ettaro e unica fonte di sostentamento. Meno male che a mio padre venne l'idea di convertire quel magro introito nell'acquisto di un pezzo d'uliveto di terra rossa (ricca di ferro), della superficie di circa un ettaro e poco distante dalla città, con l'intento di trasformarlo in orto, giacché con la magra rendita del nuovo podere contenente una ventina d'alberi d'ulivi secolari fruttificanti un anno sì e un anno no non era possibile mantenere la famiglia. Bisognava assolutamente trasformarlo in orto per consentirvi la più redditizia coltivazione di verdure a ciclo trimestrale e, per farlo, non solo fu necessario abbattere quegli ingombranti alberi, ma trasportarvi anche il tipo di terreno vegetale adatto, la cosiddetta terra bianca (ricca di fosforo). L'operazione praticamente consentì ai miei avi di non abbandonare la terra d'origine e al sottoscritto di raccontare oggi questa storia. Esternata anche allo scopo di attirare l'attenzione del legislatore regionale affinché il divieto d'abbattimento dei nostri unici monumenti viventi (attualmente sacrificati per meno nobili scopi) venga esteso alla commercializzazione della terra del fondo su cui vegetano. Senza la quale sarebbero come dei pesci fuor d'acqua.

Franco Muolo